L’idea di “Parole per sé” si è fatta spazio nelle mie notti insonni, alla ricerca di risposte che forse non verranno mai e rischiano di perdersi nell’obsolescenza dei modi di intendere la vita, in quel retrogusto di stantio che non è apprezzabile nel vino ma dovrebbe farci quantomeno riflettere sulla faticaccia quotidiana nello stare al mondo, e nel tentativo di mettere su, uno ad uno, i mattoni della nostra esistenza.
Scrivere per parlarsi, per instaurare un dialogo con sé, implica guardarsi indietro, cercare la radice dei propri pensieri e dei propri atteggiamenti. Partire da sé, dalla conoscenza del proprio io, senza piedistalli su cui appoggiarlo, ma semplicemente un letto comodo e un guanciale in cui affondare, con la serenità della notte che ci avvolge col suo buio e non ci lascia vedere oltre quello che c’è in noi, senza consensi e dissensi che vengano dall’esterno, senza altra letteratura da cui attingere copiaincolla di emozioni.

Parole per sé è un invito a scrivere un pezzo della propria vita e a condividerlo insieme, qui. Un ricordo, un momento, un incontro che hanno fatto riflettere e indotto un cambiamento, una consapevolezza. Vita comune che si fa racconto e si percepisce nella sua unica dimensione di tempo presente.

Parole per sé non ha la pretesa di essere un concorso letterario perché non ci sono premi da vincere, non ci sono scrittori e critici che esprimeranno pareri e commenti, non ci sono promesse di patinatura. C’è – e non è poco – l’auspicio di un viaggio attraverso la conoscenza di sé, con la certezza che le parole per sé non sono mai parole perse.

Buon viaggio.

IL VERO NEMICO

di un "carissimo" anonimo
Due canzoni ricordo della mia giovinezza, due frasi che hanno lasciato un segno tanto profondo da sembrare cicatrici bianche di frustate nella carne dell’anima.
Una era un verso del "Cantico dei drogati" di Fabrizio De Andrè, quello in cui racconta di "folletti di vetro/che mi spiano davanti/che mi ridono dietro…". Tutta la canzone era una visione allucinata della realtà, che solo molto dopo ho collegato con un principio di alcolismo con cui Fabrizio stava facendo i conti. Per me era la negazione della vita, la sublimazione del dolore dell’esistenza portato all’estremo, le corde del violino nel Trillo del diavolo che si spezzano una ad una… anche se l’ultima reggeva sempre.
L’altra, del tutto diversa, era una canzone di Vecchioni, Archeologia, anche questa una delle prime, in cui dice "Vuoi ridere? oggi penso all’ avvenire/io che se la sera avevo mille lire/me le bruciavo come punizione/perché un giorno vale una canzone"… Non è banale, è un modo di vivere la vita.Si, lo so, starai scuotendo la testa pensando "ma guarda che cose mielose sta tirando fuori", però la realtà parte da dove vuole lei, non da dove voglio io, e questa è stata la partenza, che tradotta in termini più terra terra era che a diciott’anni, più o meno, pensavo a quanto sarebbe stato dolce morire piuttosto che affrontare il mondo. E che, possedendo solo pensieri e parole, mai e poi mai ne sarei stato avaro.
Su questi e quelle non c’erano proprio problemi. Oh, se avessi avuto un centesimo per ogni pensiero che sfrecciava - e che sfreccia - attraverso la mia mente: pensieri in forma di immagini, lampi, incubi, fantasmi, vampiri, lupi. Pensieri assassini che cercavo di materializzare, pensieri che faticavano a tradursi in parole… dovevo rallentarli fissarli, ed era tanto triste quanto spiegare una cosa difficilissima e urgentissima ad un bambino scemo. Tutto questo non è cambiato di una virgola. E la professoressa d’inglese, le professoresse d’inglese, a cercare di spiegarmi che dovevo pensare in inglese, non in italiano e poi tradurre. Stupide stronze: cosa ne sapevano loro di un pensiero che non trova parole, di un pensiero che devo inchiodare come una farfalla su un foglio per poterlo comunicare! Gliel’ho detto. Si sono incazzate. Gli ho detto che se non potevano capire probabilmente non era colpa loro. Non hanno capito neanche questo.
Certo, problemi ce n’erano, non era facile mettere un ordine, e a parte meravigliosi comodissimi temi al liceo, potevo solo scriverle, le mie idee, scriverle su una vecchia Lexikon 80, carrello lungo. Pagine, pagine, pagine. Scrivevo "parole in libertà". Tutte gettate via, perché, come dicevo ogni giorno vale una canzone, e niente deve restare per l’indomani. Amavo Rimbaud, amavo la sua pazzia che non avevo il coraggio di seguire, amavo Pier Paolo Pasolini e la sua logica, tragica immersione nella realtà: avrei dovuto mollare tutto e mettermi a scrivere, articoli, recensioni, ricette, riassunti, qualsiasi cosa, tanto non mi costava nessuna fatica, così come non me ne costa ora. Giusto un po’ di whisky, ogni tanto, ma per soddisfazione, non come carburante.
Quanto di quello che pensavo usciva all’esterno e quanto restava dentro, a girare come uno sciame di api impazzite? Non lo so, scrivevo cazzate e teorizzavo, teorizzavo un isolamento paranoico dal mondo, un Ente Autosufficiente, la verità come apologia. Leggevo, leggevo, leggevo, leggevo Pascal, Kafka e Kierkegaard, Joyce, Goethe, Pavese, Sartre, Heidegger. Wittgenstein…. Naturalmente Marx, Adorno e Horkheimer (chi non li ha letti, all’ epoca?) Jaspers e Svevo. E poi, Rimbaud, Verlaine, e quello stronzo di D’Annunzio, stronzo ma bravo, e Gramsci, i Quaderni del Carcere che gli Editori Riuniti avevano appena pubblicato.
Tenevo un coltello da lancio, di quelli che usavano negli anni ‘80, tutta lama a losanga, senza manico, sulla scrivania e ogni tanto mi piaceva sentirne il freddo contatto sulla pelle, mentre il mondo, fuori correva.
Ma io, mi dicevo, in una lucida follia che è normale in ognuno di noi, io non mi piegherò, piuttosto mi spezzo.
Ero una ragazzo imbecille, non capivo che ai pensieri devono seguire le azioni, quelle azioni che alle idee danno concretezza e realtà, e da questa realtà nascono nuovi e diversi pensieri, e allora sì che si va avanti, si segue una strada, la propria strada.
Invece, senza agire, il mondo ti stringe, ti pressa, procede lo stesso mentre tu rimani fermo.
Mi sono spezzato.
Non è stato un lungo buio, non sono impazzito, niente di così romantico.
È stato un infinito grigio, in cui ho fatto quello che dicevano gli altri, stordito da paure e psicofarmaci, una vita da pollo di allevamento, da vitello in batteria. Tanto, pensavo, gli anni passano e arriverà pure la fine.
Ma questo non è importante. Importante è che comunque c’era un seme, in quella mia stupida testa, la consapevolezza che dovevo in qualche modo uscirne. Vivo, anche se non volevo ammetterlo.
E in qualche modo ne sono uscito, prima di fare l’incontro che doveva cambiare veramente la mia vita. Non con una donna, no davvero, ma è un altro discorso.
Ho imparato a credere nel potere delle parole. Io, che cercavo la magia negli antichi testi degli alchimisti (e ho trovato in una grande biblioteca comunale dei testi veramente dell’epoca di Paracelso), io che ho sbattuto la testa nello Zen senza mai capirci niente, però leggendo i tre volumi dei Saggi di D.T. Suzuki e un’infinità di libri minori, a cominciare da quello di quel truffatore di Herrigel (però simpatico!), io che ho cercato nel misticismo sufi di Mandel una via alla comprensione, in fondo non troppo dissimile da quello cattolico di Tomaso da Kempes, solo più aggiornato, io ho infine scoperto il potere nelle mie mani. Un potere relativo, certo, un potere che bisogna aver voglia di sviluppare, di potenziare, di usare, ma ci vuole una ragione per fare tutto questo. E una ragione non ce l’avevo e non ce l’ho.
Ma un potere assoluto. L’ho capito quando seguivo una terapia PNR (Programmazione Neuro-Linguistica), e mentre l’ analista mi studiava io studiavo lui. Lui imparava di me, dove toccare le leve giuste, sbloccare gli ingranaggi, e io imparavo da lui il potere della manipolazione diretta, non quella occulta e generica della pubblicità, ma quella becco-a-becco, quella del venditore porta a porta.Quella dei cialtroni, degli illusionisti, ma scientifica, sistematicizzata. Il potere della parola, che costruisce schemi mentali, inventa situazioni, storie, realtà mai esistite.
Ma esiste veramente la realtà? In fondo crediamo reale quello che abbiamo visto, ma solo come l’abbiamo interpretato, e quello che ci viene raccontato da chi reputiamo degni di fede, TV, enciclopedie giornali… Ah ah ah!
È altrettanto valida la realtà di un film di fantascienza, basta farla diventare verosimile.
E così, saltando a grandi passi la cronaca piena di quei fatti ordinari che pure costituiscono la vita, come da ragazzo sognavo di essere forte di carattere e duro per difendermi dal mondo, così alla fine duro lo sono diventato in quel modo in cui si indurisce l’acciaio, scaldandolo col fuoco e temprandolo col sangue, ma ho scoperto di non averne più bisogno. Che non c’è niente di tremendo da cui difendermi, che il mondo in realtà è lì, a portata di mano. E che l’unica cosa di cui non avevo paura, il tempo che passa, è il vero, solo, grande nemico.