L’idea di “Parole per sé” si è fatta spazio nelle mie notti insonni, alla ricerca di risposte che forse non verranno mai e rischiano di perdersi nell’obsolescenza dei modi di intendere la vita, in quel retrogusto di stantio che non è apprezzabile nel vino ma dovrebbe farci quantomeno riflettere sulla faticaccia quotidiana nello stare al mondo, e nel tentativo di mettere su, uno ad uno, i mattoni della nostra esistenza.
Scrivere per parlarsi, per instaurare un dialogo con sé, implica guardarsi indietro, cercare la radice dei propri pensieri e dei propri atteggiamenti. Partire da sé, dalla conoscenza del proprio io, senza piedistalli su cui appoggiarlo, ma semplicemente un letto comodo e un guanciale in cui affondare, con la serenità della notte che ci avvolge col suo buio e non ci lascia vedere oltre quello che c’è in noi, senza consensi e dissensi che vengano dall’esterno, senza altra letteratura da cui attingere copiaincolla di emozioni.

Parole per sé è un invito a scrivere un pezzo della propria vita e a condividerlo insieme, qui. Un ricordo, un momento, un incontro che hanno fatto riflettere e indotto un cambiamento, una consapevolezza. Vita comune che si fa racconto e si percepisce nella sua unica dimensione di tempo presente.

Parole per sé non ha la pretesa di essere un concorso letterario perché non ci sono premi da vincere, non ci sono scrittori e critici che esprimeranno pareri e commenti, non ci sono promesse di patinatura. C’è – e non è poco – l’auspicio di un viaggio attraverso la conoscenza di sé, con la certezza che le parole per sé non sono mai parole perse.

Buon viaggio.

LE PAROLE CHE GIANNA E CLAUDIO SI DICONO

di Jane Bowie

Gianna sente gli occhi di Claudio scivolarle su e giù, a destra e a sinistra, davanti e dietro, sopra e sotto, fuori e dentro.
“Ora,” dice Claudio.
“No,” risponde Gianna.
“Sì,” ribatte Claudio.
Fa due passi e la raggiunge. Adesso oltre agli occhi Gianna sente il suo fiato scivolarle adosso, avvolgerla come caldo, unto, olio essenziale.
“Ti voglio prendere ora. Qui.”
“No,” ripete Gianna.
“Girati.”
“No.”
Lui l’afferra per le spalle e prima che riesca a reagire ha già stretto insieme i due polsi della donna tra le dita e il palmo della sua mano destra, e con la sinistra la spinge in avanti finché non si trova schiacciata contro la parete.
Davanti la fredda e bianca durezza della parete che sente lungo tutto il corpo. Preme contro la sua guancia, i suoi capezzoli, la sua pancia, le sue ginocchia.
Dietro la calda, insistente durezza del corpo di Claudio. Sente già in sagoma la sua determinazione, la sua voglia di lei…
Prova a non gemere, ma lui vince.
Geme.
“Allora lo vuoi? Ammettilo.”
“No.”
“E allora cosa faccio con te? Ti mollo? Ti lascio libera? Vattene pure, vattene via.”
Silenzio.
“No.”
La mano sinistra di Claudio scende lentamente lungo il fianco di Gianna.
“Allora lo vuoi?”
“Sì.”
“Sì cosa?”
“Sì lo voglio.”
“Cosa vuoi? Dillo.”
“Voglio te.”
“Vuoi me cosa? Voglio sentirlo. Voglio sentirtelo dire.”
“Voglio che mi scopi. Voglio che tu mi scopi, tu, qui, ora, subito…”
Gianna e Claudio sono coetanei, hanno 62 anni e domani festeggiano 35 anni di matrimonio. Più tardi nel pomeriggio si ricompongono tra risate e bacini e vanno al discount per fare la spesa.
Gianna vuole fare la torta preferita di Claudio per domani. Non si sente brava con le parole. Non riesce a scrivergli un biglietto, una lettera. Così gli fa la torta. Lui lo sa, e mangia sempre tre fette.
Claudio spinge il carrello e Gianna dà gli ordini. Lei, mandante efficiente e decisa, decide cosa si prende, quanto si prende. Lui, esecutore perfettamente ubbidiente, prende i pacchetti e i barattoli e li poggia nel carrello.
Quella sera vanno a letto presto. Nonostante la loro età tutti li trovano pimpanti, in splendida forma. Lo stesso, verso notte, si sentono più stanchi di qualche anno fa. A letto spesso ci vanno con la sola voglia di addormentarsi; stasera si scambiano un bacino, si sorridono, la scintilla accesa nel pomeriggio ora una luce più diffusa, dolce. Si addormentano mano tra la mano, il piede destro di lei appoggiato contro il piede sinistro di lui.
“Buona notte caro.”
“Buona notte tesoro.”
Hanno due figlie già grandi, la maggiore è già sposata da un anno, più o meno. Il loro desiderio più forte, che non esprimono mai a voce se non tra di loro, perché sono persone intelligenti e discrete, è quello di avere presto un nipotino da coccolare, da portare a passeggio, per cui fare le torte del compleanno.

4 FEBBRAIO 2001

Stamattina mi sono alzato presto, la casa dorme ancora, da molto tempo non succedeva.E’ un periodo in cui non sto troppo bene fisicamente, il fegato mi duole, leggermente, ma in continuazione. Ho poi anche in continuazione dolori al basso ventre, forse è l’appendice.Non parliamo degli occhi, mi accorgo con sgomento di vederci meno ogni giorno.Non scrivo più, sento le parole attraversarmi la testa, ma senza creare quelle illusioni di sogni e colori che un tempo mi permettevano di volare.I racconti, le storie su cui avevo lavorato giacciono in un angolo della mia testa sono coperti di polvere, non mi viene neanche la tentazione di riporli per un uso migliore, e così le pagine si fondono, si mescolano, le parole che avevo cercato si cancellano da quei fogli mai scritti e si perdono nel buio che ormai circonda la scena.Sto ascoltando e riascoltando il ‘Gloria in excelsis Deo’ , di Haendel arrangiato per organo e tromba, un regalo che mi ha fatto AnnaMaria, dopo aver saputo che da quasi trent’anni lo stavo cercando.Ogni volta mi vengono le lacrime agli occhi.E’ come annullare con un colpo di spugna una vita, e ritrovarmi in sala nella mia casa di ragazzo,davanti al vecchio Philips appoggiato sul tavolino ad ascoltare e riascoltare questo pezzo che mi ero fatto imprestare in parrocchia, poi, non avendo un organo od un altro strumento adeguato lo provavo sulla fisarmonica di Aldo; una fisarmonica giocattolo due ottave e mezza, assolutamente inadeguata a recepire tutte le variazioni i picchi improvvisi, le impennate della musica.A ripensarci adesso quella fisarmonica era già allora, per un ragazzino inconsapevole, una metafora della mia vita. Nella testa grandi slanci, e voli a braccia aperte in cieli azzurri, grandi fantasie, poi, lo strumento della mia vita, del mio corpo, che sentivo inadeguato.Quante cose avrei voluto fare, le mie passioni, la musica, la poesia, la montagna, costretto a viverle sempre a spizzichi e mozzichi, sempre schiacciate tra impegni più urgenti o , peggio ancora, più importanti.Per quanti anni, per quante volte ho vissuto per lavorare, (e qui oggi potrei anche arrabbiarmi con lo stato, con tutti, ma a che scopo?), poi, quando avevo trovato un quasi giusto equilibrio, quando della mia passione e del mio talento riuscivo a far fruttare qualcosa, non in termini economici, non mi è mai interessato, quanto piuttosto in termini umani, i problemi con la gelosia di Liliana, ed il nuovo abbandono di tutto.Come quando sulla piccola fisarmonica di Aldo, partiva l’impennata musicale seguendo le variazioni del ‘Gloria’, e si arrestava bruscamente perchè erano finiti i tasti.Rimaneva un senso di vuoto, di impotenza un senso di inutilità.

UNA BREVE STORIA D'AMORE

In un tempo molto molto lontano, quando la Zenzy non aveva ancora superato la frontiera degli anta, la Zenzy andò in vacanza nel modenese con la sua amica del cuore, il ragazzo della sua amica del cuore, una gatta e tre micini.
L’amica della Zenzy e il ragazzo dell’amica della Zenzy erano andati in avanscoperta per trovare un posto in vacanza, mentre la Zenzy era rimasta a Milano e si era fatta affidare la gatta con i 3 micini a scopi cuccatori. La Zenzy era infatti persa dietro ad un tipo che adorava letteralmente i gatti e avrebbe fatto carte false per portarselo a letto ogni volta che poteva.
La Zenzy era riuscita ad attirare nella sua tana il malcapitato, lo aveva visto sciogliersi davanti ai micini, era riuscita pure a ballare sotto il ventilatore (estate caldissima) "In the flesh"… ma il malcapitato aveva già dato, e non aveva intenzione di ripetere. Uno dei migliori amici della Zenzy, conosciuto il tipo, non riusciva a capacitarsi di come la Zenzy potesse avere perso la testa per un tipo simile, e aveva caldeggiato la sua partenza da Milano.
Allora, la Zenzy prende una grande cesta di vimini, ci infila gatta e prole, infila la cesta nella mitica uno e parte per un cucuzzulo delle montagne modenesi. Durante tutto il viaggio, i mici hanno ovviamente miagolato come dannati. La Zenzy ricorda uno sguardo di simpatia da parte di un poliziotto di pattuglia ad un distributore, e comincia a ponderare sulle potenzialità cuccatorie del possedere dei mici. Arrivata al paesino, l’amica della Zenzy l’accoglie con "Ho selezionato i due più bei ragazzi del paese, adesso te li presento".
L’amica parte con la presentazione del primo: il figlio della trattoria/albergo del paese. La Zenzy si accorge immediatamente che il tipo a mala pena si accorge di lei, e in effetti l’amica ammette che il tipo era così distratto da non accorgersi nemmeno di avere la patta aperta (particolare che alla Zenzy era sfuggito, se no partiva una risata fragorosa).
Quindi, si passa al secondo predestinato… le vacanze sono brevi, e non c’è tempo da perdere! Dopo cena, la Zenzy, l’amica del cuore e il ragazzo dell’amica del cuore, si mettono ad un tavolino a chiacchierarsela mentre dal tavolino vicino, Maurizio osserva i tre. L’amica lo invita a sedersi con loro, e la serata passa fra partite a carte e chiacchiere a raffica!
Immaginatevi la scena: la Zenzy che finalmente si gode le meritate ferie fra persone amiche, sotto il cielo stellato dell’appennino e Maurizio la invita a fare due passi. La Zenzy accetta.
Due passi e Maurizio (12 anni meno della Zenzy, come la Zenzy avrà modo di appurare) parte con un bacio. La Zenzy trema come una foglia, nemmeno lei sa il perchè. Maurizio le chiede se ha paura di lui, la Zenzy non lo sa. Altri due passi e si rientra. Maurizio saluta e va, la mattina dopo deve svegliarsi molto presto. Non è in vacanza come la Zenzy.
Il resto della serata la Zenzy lo trascorre chiacchierando con il ragazzo della sua amica del cuore, su una panca davanti alla casa presa in affitto. Mentre l’amica del cuore se ne va a nanna. Ovviamente il ragazzo dell’amica del cuore della Zenzy la sfotte a piè sospinto su tutto, se no, che amico sarebbe?
La Zenzy rimane per ultima sotto le stelle e poi si ritira a dormire. Arriva il giorno dopo, e la Zenzy si alza prima di tutti. Va alla porta e cosa trova? Infilati nella porta, una rosa e un biglietto, scritto con calligrafia elementare e anche sgrammaticata, in stampatello "MI SONO INAMORATO DI TE".
La Zenzy non realizza subito, resta davvero stupita! Si guarda intorno. Una cosa così non le era mai capitata!
E fu così che divennero lo scandalo del villaggio.
La Zenzy era giunonica, anche se allora era una ventina di chili di meno, ma Maurizio era un ragazzone. L’amica del cuore della Zenzy era terrorizzata a vederselo piombare in casa quando veniva a cercare la Zenzy, anche se la Zenzy cercava di tranquillizzare l’amica del cuore sostenendo che Maurizio era innocuo.
E qui non entrerò nei dettagli, per passare al racconto di cosa fece il Maurizio per la Zenzy.
La fine delle vacanze si avvicinava e Maurizio, saputo che la Zenzy amava ballare, decise di organizzare una festa danzante con un suo amico dj per salutarla.
La Zenzy si ritrovò così, una sera, in una cava adibita a pesca sportiva, con l’amico dj che metteva musica, UNICA persona che ballava, UNICA invitata con la sua amica del cuore e il ragazzo della sua amica del cuore, mentre il Maurizio piangeva come un disperato la sua partenza. Era allibita. La Zenzy ballò come una pazza da sola tutta la sera e non le riuscì di consolare un solo attimo il povero Maurizio.
La Zenzy tornò a trovare Maurizio un paio di volte, tempo dopo. Una volta finì quasi fuori strada sotto un temporale scrociante. Arrivata al paese, il Maurizio se ne era andato a Rimini con amici, e la Zenzy riuscì a prendere una stanza nell’albergo/trattoria del paese. Quando le diedero la chiave le dissero che le era vietato nel modo più assoluto fare entrare il Maurizio. Quella volta non lo vide.
Lo rivide un’ultima volta. Al lavoro le dissero: "C’è una riunione, vuoi partecipare?", la Zenzy chiese "Posso non venire?" e così partì. Passarono assieme tutta la notte a casa del Maurizio. Al mattino la Zenzy non sapeva che fare. Le sue allucinazioni erano fortissime. Una cosa però la ricorda bene: Maurizio che le accarezzava il collo, e il desiderio più forte della Zenzy era che con le sue forti mani glielo stringesse fino ad ammazzarla. Non era colpa del Maurizio, è la Zenzy che è fatta in modo strano. La Zenzy tornò a Milano, e non ritornò più dal Maurizio. Lui la chiamò molte volte. La Zenzy smise di rispondergli.

PRESENZA D'ASSENZA

di Dandapit

Dialoghi immaginari fra me ed un’altra che dentro vive.
Con soffice voce d’amore le parlo, nel sussurro d’un desiderio di semplicità e comprensione, raccontandomi per filo e per segno, mentre in silenzio m’ascolta.
Quante parole ho usato per spiegarmi, spiegare sentimenti, emozioni, a persone che si trasformano in muro.
Muro.
Nell’immaginario ogni cosa si scioglie, vede sorrisi, ed il pensiero leggero si fa, con fiducia diviene “Così devo parlare”, sì, …andrà tutto bene!

Scontri.
Parole, scontri,
Mi chiedo allarmata chi io sia!
Timori, tremori.
Perché? …perché quando provo a dire, l’altro insorge si rivolta non accetta! …S’alza un’onda, ne vengo travolta.
Inghiottita.
Non dovevo osare!
Non dovevo osare aprire, esser schietta, esporre emozioni, mostrare i passaggi interiori.
Non dovevo.
Non l’ho capito ancora?
Percorsi antichi, noti. Il palmo d’una mano lo puoi disegnare talmente è familiare! Le orme, da quando venivo educata, so riconoscerle: devo accettare e basta. Non parlare. Non contrappormi. Accettare.
Aspettare.
Aspettare che il copione sia pronto, seguire le sue battute, entrare in scena quando è scritto, uscire quando è stabilito. Non inventare nulla di mio; attenermi al testo.
Invece io oso.
Oso e vengo punita.
La mia invadenza, il mio troppo amore, la mia troppa presenza, la mia troppa sensibilità…
Non c’è spazio.
Il copione, attieniti al copione!
Guarda la scena: ci sono altri personaggi. Non sei l’unica. Fatti da parte.

Un ricordo in ripetizione mi scorre davanti, pellicola da 8 millimetri ingiallita, polverosa, fragile nello spezzarsi.
Non è una pellicola, è un ricordo in bianco e nero. Non è ingiallito, è vivo. Non si spezza, ha messo le sue radici. Non è confuso, resterà nitido e vivo.
È una bambina, una bambina che ama la sua terrazza: ampio spazio circondato da piante dove gioca. Le piace stare sulla terrazza che confina con quella dei vicini, lassù all’ottavo piano. È diventata ormai abitudine per lei arrampicarsi sul muretto divisorio, su cui, in continuità separativa, è cementata l’alzata d’un vetro.
Sta con i piedini in bilico sul muretto, aggrappata al vetro. Non c’è pericolo, il muretto è interno alla terrazza, la ringhiera è lontana.
I vicini spesso cenano là fuori.
I suoi genitori purtroppo no: papà non gradisce esporsi all’esterno con la tavola imbandita… che peccato! Lei invece si divertirebbe un mondo, per una novità che vince l’abitudine!
Gli abitanti della contigua terrazza sono una famiglia con due bambini; come lei e suo fratello, quasi coetanei tutti e quattro. A volte giocano oltre le ringhiere con storie inventate.
Lei si affaccia al di sopra del vetro e in punta di piedi cerca di superarlo con tutto il viso, sorride: “Ciao! Cenate fuori?”
Sì, cenano fuori, stanno apparecchiando.
Poche parole. Sorrisi contratti in smorfie sospese… Si sente a disagio.
Il padre della famiglia si china a raccogliere il tubo di gomma con cui annaffia le piante, apre il rubinetto e, mentre su quei volti il sorriso si spalanca in risata, lui, ponendo il pollice sul getto in uscita, prende la mira, spruzzandole acqua addosso.
Non la vogliono lì mentre cenano. Hanno trovato un modo per liberarsene.
I bambini ancora ridono divertiti, lei, sorpresa ed incredula, con l’acqua che le cola dal viso, si ritira umiliata, scende dal muretto, va dalla mamma a raccontarle e mostrarle i vestiti bagnati.
La madre resta china su ciò che sta facendo, lo sguardo non si alza. Cerca di ignorarla mentre la sua voce le risponde che non la vogliono. Deve lasciarli in pace.
L’adulta continua ad osare, ancora è respinta.
Quella bambina e la sua adulta, non accattano elemosine d’affetto e d’attenzione.

La vita va avanti, ed io cammino, percorro l’infinita strada. Quante volte sarò presa di mira da uno spruzzo d’acqua affinché capisca d’essere inopportuna, di dover andare via?

Ho eliminato il suo nome dalla memoria digitale.
Lo so che non basterà. Con impegno mi inseguo per recidere il legame d’un amore, legame all’ombra… Legame di ferita aperta, legame d’adolescenza!
Lui mi cerca come una talpa, scavando cunicoli per non farsi vedere, per formare gallerie attraverso cui vuole che lo raggiunga, ma senza mostrare il lavoro del suo intento. Senza mostrare l’interesse del proprio cuore a sé sconosciuto.
Rovinerebbe l’arguzia del gioco. Guasterebbe il celato labirinto ordito.
Come una sciocca, un’ingenua bimba, cado nella sua tela di ragno, e m’affaccio.
Mi espongo.
Eccomi, sono di nuovo arrampicata sul muretto, col viso oltre l’opaco vetro di separazione, e lui può rassicurarsi del fatto che sono qui: non l’ho dimenticato!
Ed ora che qui sono, esposta, può dirigermi il suo impietoso getto d’acqua gelida in faccia, e ridere, adesso che sa che nel fondo di me lo aspettavo ancora!
Può ridere di quella bimba affettuosa che col suo innocente sorriso è rimasta a chiedere: “Ciao! Che fate? Cenate fuori? Cosa mangiate stasera?”

Ride. Si è preso la sua rivincita.
Ride, dalla sua posizione di adulto.
Ride, dalla sua postazione di talpa.
Ride dalla sua corazza, mentre mi bagna i vestiti che pendono zuppi, inutili.
Io non ho nessuno a difendermi.
Me stessa mi dice che sono stupida, ci sono caduta un’altra volta.
Non ti vogliono. Ancora non l’hai capito? Cerca di dare meno fastidio possibile. Impara a recitare il tuo ruolo e vedrai che quando sarà opportuno verrai chiamata.
Vivrai solo a brevi sprazzi, ma è così che dev’essere.
Sei nata per rimanere a disposizione. Per il resto, puoi anche sparire.

Percorsi antichi, noti.
Così è stato, così si è ripetuto.

Eppure occorre un attimo, è l’istante che trasforma tutto.
Sarà l’ingenuità a vincere. Sarà l’apertura, la voce, il sorriso, il contatto!
Desidero la rivoluzione: per questo son nata!

Ai muri spunteranno orecchie, senza via di scampo!
Questa è la promessa. Il dono che mi lascio…

DUE VOCALI. TUTTO QUA.

di Massimo De Nardo

Io sono “IO”. Non per credersi chissà cosa, ma, cavolo, sono tutto qua? Due sole vocali: “I”, “O”. L’esistenza si riduce a questo? E non è che “TU” ti sia tanto allargato, nel vivere. “Tu” sei una consonante e una vocale, tu–tto qua, pure tu.

Questo IO così ingombrante, da impettirsi con un Super-IO, è composto da due vocali una appresso all’altra, ordinate, precise precise nello schema dell’A, E, I, O, U.

Già “EGO” è un tantino più grande. Potremmo aggiungere qualcosa all’IO. Consonanti, non di più. Ma a pensarci bene qualcosa cambierebbe. Ad esempio, andando in sequenza, ci sarebbe da essere B-IO. Non è poco. Hai presente il biologico? Mangiare sano. Se te lo puoi permettere ti fai l’insalata e le carote da te, altrimenti devi sbirciare l’etichetta della confezione, al supermercato, e verificare se la cibaria è bio o geneticamente modificata o colorata come l’album dei bimbi. C’è pure il biologicamente degradabile. Strana parola, con quel degrado dentro. Biodegradabili pure noi. Non consola, anche se non inquina.

Da B a C. C-IO forse è una sigla, del tipo: Comitato Individualità Oppresse. Un gruppo insurrezional-narcisistico che rivendica il valore del sé, dell’unico, lontano dalla pazza folla, con tanto di motto matematico: “Chi fa da sé fa per tre”.

Con la consonante D la cosa diventa stratosferica. Ne parliamo più tardi.
Arriviamo subito a F-IO. E cioè “pena, castigo”. Qui l’esistenza del sé è terribile, una valle di lacrime, a causa, per molti, di una disubbidienza agro-alimentare. Per altri, una minoranza, è l’esistere che porta con sé un sé che non può essere totalmente se stesso. Pessimismi della ragione, e a volte anche della volontà.

Il G-IO è nulla. Forzando, è la smangiucchiatura infantile delle parole ancora non pronunciate correttamente: “gìo gìo tondo, casca il mondo…”. Un IO tutto da crescere, da maturarsi, ma che già raccoglie quello che poi condizionerà per sempre la nostra personalità e che forse non ci farà mai diventare adulti sul serio, con tutto quello che ne consegue, perché il mondo non lo salveranno certo i bambini che dimostrano sessant’anni.

L’H la saltiamo. L’acca è muta. Così ci hanno insegnato da piccoli, con l’alfabeto pronunciato in due lingue. B e BI, C e CI, P e PI.

L-IO di solito va scritto con “elle apostrofo”. Quand’è così, bisogna rifarsi ai manuali, quelli dei lettini, dei sogni, delle pulsioni, dei desideri. C’è chi va dallo strizzacervelli a curarsi le carie della materia grigia; però, già che c’era, la natura poteva farlo arcobaleno sto po’ po’ di mistero in gomma acciambellata che risiede nel cranio del neanderthal metropolitano.

Adesso tocca al possesso, quel M-IO che scombussola tutto. Se le cose fossero “nostre” non sarebbe meglio? “Nostro” includendo anche il “vostro”, altrimenti siamo daccapo, il “nostro” sarebbe un “mio” al plurale. Va bene, dai, condividiamo tutto, ma l’amor mio quello no, facciamo che sia mio, fino a quando pure io sarò il suo “mio”.

Ora l’io si fa devoto, basta legarci una P e siamo a due passi dall’anima. Papi e santi ce l’hanno nel curriculum. Il mio IO ha la devozione della fedeltà, non sempre high fidelity, ma non proprio a basso tono. Un po’ di coerenza, difficiletta da conservare, ma necessaria.

Penultimo viene il parente, fratello di un genitore, quello Z-IO che in qualche modo abbiamo avuto tutti, anche se figli di figli unici: uno zio honoris causa lo si trova sempre. C’era lo zio d’America, che arrivò a Coney Island bambino muratore e con la cazzuola in mano c’è rimasto tutta la vita, fino al grande mattone finale che gli hanno messo sopra quando il dream of life si era concluso senza avverarsi. C’era lo zio Vania, di Cechov, che ha più di cent’anni ma non li dimostra perché ancora sta lì - fortuna che ancora è lì - sopra qualche palco di una qualche città a dare delle belle mazzate all’indifferenza. C’era la zio Sam (Uncle Sam, iniziale, parrebbe, di United States), quello con il dito puntato su di te (noi e voi, non si scappa), a “volerti” come soldato di tutte le porche guerre, e noi, birichini, rispendevamo con un altro dito, senza bon ton.

Ultimo, e certo non meno importante, anzi, se hai fede è “il più” importante, ci sarebbe quell’io con la D.

Ma chi si crede essere, quell’io con la d, D-io? Dio è morto, e anch’io – come disse qualcuno – non mi sento poi tanto bene.

PISTACCHIO O CIOCCOLATO?

di Alex
Una stella ozia pigramente sulla schiena del monte, brilla in uno spazio buio di cielo, così piccola non ha paura del vuoto, del nulla che la circonda.
La montagna è una striscia scura, frastagliata contro il blu più chiaro del cielo.
Ho fermato la macchina sulla strada (qui non passa nessuno a quest’ora), ho spento le luci, il motore e sono sceso.Tutto intorno è buio e silenzio.
In questo gelido e terso cielo invernale la luna risplende sovrana. Non è ancor piena, ma già la sua luce illumina il paesaggio di una luce fredda e bianca, che accentua i contrasti, uccide i mezzi toni e le sfumature.
Tutto intorno, nel cielo, manciate di stelle si contendono gli spazi bui, si riconoscono le costellazioni, Orione, Cassiopea, il Sagittario.
L’Orsa Minore, il piccolo Carro è poco sopra l’orizzonte, con il timone da sempre, indica il Nord.
La strada è bianca, lastricata di pozzanghere ghiacciate.
Davanti a me si stendono i prati, qualche rado albero segna i confini dei poderi, chiazze di neve risaltano chiare qua e là.
Poi, più in là, un’ombra più scura denota l’inizio del bosco, che sale fino a confondersi con il profilo delle montagne.Che sensazione strana essere qui stanotte.
Faccio alcuni passi su questa strada che ho percorso innumerevoli volte, a piedi, in bicicletta, da solo o in compagnia, accendo una sigaretta… non fosse tutto così umido mi piacerebbe sdraiarmi da qualche parte … a guardar le stelle… a pensare… a sognare…
Da bambino venivo qui con la nonna a funghi. Le biciclette gettate in un fosso, si percorrevano sentieri invisibili, che giravano attorno agli alberi, frugando con il bastone tra l’erba alta e dura, spostando delicatamente le foglie.
Il silenzio era d’obbligo, come anche il muoversi facendo il minor rumore possibile.
Ricordo il caldo dei giorni d’estate, quando era tutto un frinire di cicale, l’aria ronzava e odorava di resina e polvere. Il canto degli uccelli una colonna sonora che avvolgeva il tutto.
Forse questa sera sto cercando il bambino di allora, ignaro del mondo, indifferente al senso della vita.
Ma che cos’era la vita per un bambino di otto, forse dieci anni seduto su una pietra ad attender che la nonna tornasse?
Nulla, neanche un pensiero che poteva sfiorare la mente quando un tafano vile cadeva stecchito schiacciato dalla mano del bimbo che aveva proditoriamente morso.
Quel corpicino che più non si muoveva non destava pensieri, non evocava domande, era un aspetto di tutto ciò che ci circondava.
Quel bambino, i cui sogni erano mutuati dalle storie che leggeva, non si vedeva adulto, non si chiedeva cosa ne sarebbe stato di lui un giorno, non si poneva il problema di cosa fare da grande.
Per lui il futuro era l’arrivo della nonna ed il rientro a casa in bicicletta, lungo la strada sulla quale 35 anni dopo, sto camminando stasera.
Stasera sto ricercando quel bambino, lo spirito ingenuo, la fiducia incorrotta, sto cercando forse inconsciamente qualche cosa che ho perduto senza saperlo, ed il cui ricordo improvvisamente e dolorosamente mi torna alla memoria.
La luna si è spostata nel cielo, ora minaccia la cima del monte, la prima sigaretta ha occhieggiato per un po’, rossastra, tra le pietre della strada, poi, si è spenta.
Mi tornano alla mente i calzoni corti, ed i fogli di giornale infilati sotto la maglia per non prendere aria allo stomaco ed il profumo del sudore, l’odore del bosco d’estate, del ginepro, dei pini.
Erano giorni d’estate inoltrata, delle vacanze da scuola.
Erano giorni di cow-boy ed indiani, Capitan Miki e Blek Macigno, fumetti divorati, mentre sdraiato al fresco sulle scale di casa attendevo che il mondo giungesse a chiamarmi.
Giorni ad attendere impaziente l’ora in cui per la via passava il carrettino della ‘gelateria veneta’, 20 lire un cono, 30 la coppetta, ed i gusti strani e mai provati ‘’pistacchio? cosa caspita sarà mai il pistacchio?, e se poi non mi piace e spreco le 20 lire di oggi? mmmhhh meglio il cioccolato che vado sul sicuro, il pistacchio lo prendo magari domani."
E rubare la trombetta al Bepi per provare a suonare, …quegli attimi di gioia nell’attesa che il sospirato cono fosse pronto, e leccarlo, come un rito, lentamente mentre piano mi avviavo verso casa.
Nel cortile, all’ombra, mia madre con le altre donne che ricamavano, cucivano, chiacchieravano. Il gelato, nonostante l’impegno per farlo durare, era presto finito e si trattava di far arrivare le 18.00 ora in cui iniziava la Tv dei ragazzi.
E allora libri di avventure riletti più volte, e ancora fumetti, non si poteva giocare in cortile per non disturbare chi andava a riposarsi.
Notte strana questa di gennaio, ho chiuso il giaccone perchè il freddo inizia a farsi pungente, accendo un’altra sigaretta e mi incammino attraverso un ponticello di erba su un tratturo che si inoltra nei prati come ogni giorno, mi inoltro con passo sempre più incerto in questa cosa strana che chiamiamo vivere.

PAROLE PER SÉ

di Jane Bowie
Ha appreso da poco che c’è una cosa che si chiama scrittura.
I grandi coprono fogli di segni. Questi segni sono allineati e organizzati in gruppi. Le piacciono soprattutto quelli che vanno in su e quelli che vanno in giù. Gli altri sono un pochino noiosi. Si esercita a riempire pagine e pagine di segni che crede essere molto simili a quelli dei genitori. Fa gruppi di segni più corti e più lunghi, come i grandi, ma sta attenta ad includerne sempre parecchi che vanno su e parecchi che vanno giù, così che la sua scrittura risulti più interessante per chi la legge.

È rimasta momentaneamente delusa dal fallimento della sua teoria che i gruppi fossero in qualche maniera collegati con le parole. Le hanno comperato una rivisita di fiabe e fumetti per bimbe, chiamata C’era una Volta per Bambine. Cercando di leggere una parola per ogni gruppo di segni ha visto che i gruppi finivano sempre a Volta e non ce n’erano per per e bambine. Che rabbia! Poi le hanno detto che C’era una Volta per Bambine era finito e allora le avevano preso Fiabe da Raccontare. Si sentì molto meglio.
Un giorno aveva bisogno di scrivere. Era molto importante. Era urgente. Doveva farlo. Aveva in mano una grossa matita rossa. Mancava la carta. Ma era impellente scrivere con la matita rossa. Guardandosi in giro si accorse che c’era una zona di moquette gialla, dietro ad una sedia, che nessuno avrebbe mai visto e dove nessuno andava a mettere i piedi. Non serve a niente e non si vede nemmeno, ragionò. In ginocchio, dietro alla sedia riempì di segni importanti una zona di moquette di mezzo metro quadrato, convinta della bontà della sua logica.
I suoi genitori meno. Molto, molto meno…
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TEMPO
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Seduta davanti al computer, si alzò di colpo, con uno scatto della testa al grido “Mamma! Ho scritto!”. La manina di tre anni le offrì un foglio. Era da tempo che la manina amava tenere una matita o una penna e scarabocchiare. Ma non l’aveva mai definito scrittura.
Aveva riempito un foglio con minuscoli, ordinati segni tondeggianti ma diversi tra di loro, perfettamente allineati. Alcuni assomigliavano del tutto a delle lettere, altri erano segni ben distinti e ripetuti. Non andavano molto su e giù, evidentemente sua figlia non condivideva la passione estetica per le h e le g e le t e le p.

Il giorno dopo un’altra storia. Un foglio intero a quadretti 5mm riempito, ogni quadretto un segno. C’erano diversi inchiostri, questo lavoro era evidentemente il frutto di diverse riprese, un’impresa progettata e portata a termine con determinazione. Tanti, minuscoli, tondi, confortanti letterine ognuna nella sua casetta, ognuna tenuta al sicuro così da non poter scivolare giù e cadere dalla pagina.
“Mamma ti ho scritto una storia”.

E questa, a differenza di quella sulla moquette di tanti anni fa, me la posso tenere.