L’idea di “Parole per sé” si è fatta spazio nelle mie notti insonni, alla ricerca di risposte che forse non verranno mai e rischiano di perdersi nell’obsolescenza dei modi di intendere la vita, in quel retrogusto di stantio che non è apprezzabile nel vino ma dovrebbe farci quantomeno riflettere sulla faticaccia quotidiana nello stare al mondo, e nel tentativo di mettere su, uno ad uno, i mattoni della nostra esistenza.
Scrivere per parlarsi, per instaurare un dialogo con sé, implica guardarsi indietro, cercare la radice dei propri pensieri e dei propri atteggiamenti. Partire da sé, dalla conoscenza del proprio io, senza piedistalli su cui appoggiarlo, ma semplicemente un letto comodo e un guanciale in cui affondare, con la serenità della notte che ci avvolge col suo buio e non ci lascia vedere oltre quello che c’è in noi, senza consensi e dissensi che vengano dall’esterno, senza altra letteratura da cui attingere copiaincolla di emozioni.

Parole per sé è un invito a scrivere un pezzo della propria vita e a condividerlo insieme, qui. Un ricordo, un momento, un incontro che hanno fatto riflettere e indotto un cambiamento, una consapevolezza. Vita comune che si fa racconto e si percepisce nella sua unica dimensione di tempo presente.

Parole per sé non ha la pretesa di essere un concorso letterario perché non ci sono premi da vincere, non ci sono scrittori e critici che esprimeranno pareri e commenti, non ci sono promesse di patinatura. C’è – e non è poco – l’auspicio di un viaggio attraverso la conoscenza di sé, con la certezza che le parole per sé non sono mai parole perse.

Buon viaggio.

DUE VOCALI. TUTTO QUA.

di Massimo De Nardo

Io sono “IO”. Non per credersi chissà cosa, ma, cavolo, sono tutto qua? Due sole vocali: “I”, “O”. L’esistenza si riduce a questo? E non è che “TU” ti sia tanto allargato, nel vivere. “Tu” sei una consonante e una vocale, tu–tto qua, pure tu.

Questo IO così ingombrante, da impettirsi con un Super-IO, è composto da due vocali una appresso all’altra, ordinate, precise precise nello schema dell’A, E, I, O, U.

Già “EGO” è un tantino più grande. Potremmo aggiungere qualcosa all’IO. Consonanti, non di più. Ma a pensarci bene qualcosa cambierebbe. Ad esempio, andando in sequenza, ci sarebbe da essere B-IO. Non è poco. Hai presente il biologico? Mangiare sano. Se te lo puoi permettere ti fai l’insalata e le carote da te, altrimenti devi sbirciare l’etichetta della confezione, al supermercato, e verificare se la cibaria è bio o geneticamente modificata o colorata come l’album dei bimbi. C’è pure il biologicamente degradabile. Strana parola, con quel degrado dentro. Biodegradabili pure noi. Non consola, anche se non inquina.

Da B a C. C-IO forse è una sigla, del tipo: Comitato Individualità Oppresse. Un gruppo insurrezional-narcisistico che rivendica il valore del sé, dell’unico, lontano dalla pazza folla, con tanto di motto matematico: “Chi fa da sé fa per tre”.

Con la consonante D la cosa diventa stratosferica. Ne parliamo più tardi.
Arriviamo subito a F-IO. E cioè “pena, castigo”. Qui l’esistenza del sé è terribile, una valle di lacrime, a causa, per molti, di una disubbidienza agro-alimentare. Per altri, una minoranza, è l’esistere che porta con sé un sé che non può essere totalmente se stesso. Pessimismi della ragione, e a volte anche della volontà.

Il G-IO è nulla. Forzando, è la smangiucchiatura infantile delle parole ancora non pronunciate correttamente: “gìo gìo tondo, casca il mondo…”. Un IO tutto da crescere, da maturarsi, ma che già raccoglie quello che poi condizionerà per sempre la nostra personalità e che forse non ci farà mai diventare adulti sul serio, con tutto quello che ne consegue, perché il mondo non lo salveranno certo i bambini che dimostrano sessant’anni.

L’H la saltiamo. L’acca è muta. Così ci hanno insegnato da piccoli, con l’alfabeto pronunciato in due lingue. B e BI, C e CI, P e PI.

L-IO di solito va scritto con “elle apostrofo”. Quand’è così, bisogna rifarsi ai manuali, quelli dei lettini, dei sogni, delle pulsioni, dei desideri. C’è chi va dallo strizzacervelli a curarsi le carie della materia grigia; però, già che c’era, la natura poteva farlo arcobaleno sto po’ po’ di mistero in gomma acciambellata che risiede nel cranio del neanderthal metropolitano.

Adesso tocca al possesso, quel M-IO che scombussola tutto. Se le cose fossero “nostre” non sarebbe meglio? “Nostro” includendo anche il “vostro”, altrimenti siamo daccapo, il “nostro” sarebbe un “mio” al plurale. Va bene, dai, condividiamo tutto, ma l’amor mio quello no, facciamo che sia mio, fino a quando pure io sarò il suo “mio”.

Ora l’io si fa devoto, basta legarci una P e siamo a due passi dall’anima. Papi e santi ce l’hanno nel curriculum. Il mio IO ha la devozione della fedeltà, non sempre high fidelity, ma non proprio a basso tono. Un po’ di coerenza, difficiletta da conservare, ma necessaria.

Penultimo viene il parente, fratello di un genitore, quello Z-IO che in qualche modo abbiamo avuto tutti, anche se figli di figli unici: uno zio honoris causa lo si trova sempre. C’era lo zio d’America, che arrivò a Coney Island bambino muratore e con la cazzuola in mano c’è rimasto tutta la vita, fino al grande mattone finale che gli hanno messo sopra quando il dream of life si era concluso senza avverarsi. C’era lo zio Vania, di Cechov, che ha più di cent’anni ma non li dimostra perché ancora sta lì - fortuna che ancora è lì - sopra qualche palco di una qualche città a dare delle belle mazzate all’indifferenza. C’era la zio Sam (Uncle Sam, iniziale, parrebbe, di United States), quello con il dito puntato su di te (noi e voi, non si scappa), a “volerti” come soldato di tutte le porche guerre, e noi, birichini, rispendevamo con un altro dito, senza bon ton.

Ultimo, e certo non meno importante, anzi, se hai fede è “il più” importante, ci sarebbe quell’io con la D.

Ma chi si crede essere, quell’io con la d, D-io? Dio è morto, e anch’io – come disse qualcuno – non mi sento poi tanto bene.