L’idea di “Parole per sé” si è fatta spazio nelle mie notti insonni, alla ricerca di risposte che forse non verranno mai e rischiano di perdersi nell’obsolescenza dei modi di intendere la vita, in quel retrogusto di stantio che non è apprezzabile nel vino ma dovrebbe farci quantomeno riflettere sulla faticaccia quotidiana nello stare al mondo, e nel tentativo di mettere su, uno ad uno, i mattoni della nostra esistenza.
Scrivere per parlarsi, per instaurare un dialogo con sé, implica guardarsi indietro, cercare la radice dei propri pensieri e dei propri atteggiamenti. Partire da sé, dalla conoscenza del proprio io, senza piedistalli su cui appoggiarlo, ma semplicemente un letto comodo e un guanciale in cui affondare, con la serenità della notte che ci avvolge col suo buio e non ci lascia vedere oltre quello che c’è in noi, senza consensi e dissensi che vengano dall’esterno, senza altra letteratura da cui attingere copiaincolla di emozioni.

Parole per sé è un invito a scrivere un pezzo della propria vita e a condividerlo insieme, qui. Un ricordo, un momento, un incontro che hanno fatto riflettere e indotto un cambiamento, una consapevolezza. Vita comune che si fa racconto e si percepisce nella sua unica dimensione di tempo presente.

Parole per sé non ha la pretesa di essere un concorso letterario perché non ci sono premi da vincere, non ci sono scrittori e critici che esprimeranno pareri e commenti, non ci sono promesse di patinatura. C’è – e non è poco – l’auspicio di un viaggio attraverso la conoscenza di sé, con la certezza che le parole per sé non sono mai parole perse.

Buon viaggio.

PRESENZA D'ASSENZA

di Dandapit

Dialoghi immaginari fra me ed un’altra che dentro vive.
Con soffice voce d’amore le parlo, nel sussurro d’un desiderio di semplicità e comprensione, raccontandomi per filo e per segno, mentre in silenzio m’ascolta.
Quante parole ho usato per spiegarmi, spiegare sentimenti, emozioni, a persone che si trasformano in muro.
Muro.
Nell’immaginario ogni cosa si scioglie, vede sorrisi, ed il pensiero leggero si fa, con fiducia diviene “Così devo parlare”, sì, …andrà tutto bene!

Scontri.
Parole, scontri,
Mi chiedo allarmata chi io sia!
Timori, tremori.
Perché? …perché quando provo a dire, l’altro insorge si rivolta non accetta! …S’alza un’onda, ne vengo travolta.
Inghiottita.
Non dovevo osare!
Non dovevo osare aprire, esser schietta, esporre emozioni, mostrare i passaggi interiori.
Non dovevo.
Non l’ho capito ancora?
Percorsi antichi, noti. Il palmo d’una mano lo puoi disegnare talmente è familiare! Le orme, da quando venivo educata, so riconoscerle: devo accettare e basta. Non parlare. Non contrappormi. Accettare.
Aspettare.
Aspettare che il copione sia pronto, seguire le sue battute, entrare in scena quando è scritto, uscire quando è stabilito. Non inventare nulla di mio; attenermi al testo.
Invece io oso.
Oso e vengo punita.
La mia invadenza, il mio troppo amore, la mia troppa presenza, la mia troppa sensibilità…
Non c’è spazio.
Il copione, attieniti al copione!
Guarda la scena: ci sono altri personaggi. Non sei l’unica. Fatti da parte.

Un ricordo in ripetizione mi scorre davanti, pellicola da 8 millimetri ingiallita, polverosa, fragile nello spezzarsi.
Non è una pellicola, è un ricordo in bianco e nero. Non è ingiallito, è vivo. Non si spezza, ha messo le sue radici. Non è confuso, resterà nitido e vivo.
È una bambina, una bambina che ama la sua terrazza: ampio spazio circondato da piante dove gioca. Le piace stare sulla terrazza che confina con quella dei vicini, lassù all’ottavo piano. È diventata ormai abitudine per lei arrampicarsi sul muretto divisorio, su cui, in continuità separativa, è cementata l’alzata d’un vetro.
Sta con i piedini in bilico sul muretto, aggrappata al vetro. Non c’è pericolo, il muretto è interno alla terrazza, la ringhiera è lontana.
I vicini spesso cenano là fuori.
I suoi genitori purtroppo no: papà non gradisce esporsi all’esterno con la tavola imbandita… che peccato! Lei invece si divertirebbe un mondo, per una novità che vince l’abitudine!
Gli abitanti della contigua terrazza sono una famiglia con due bambini; come lei e suo fratello, quasi coetanei tutti e quattro. A volte giocano oltre le ringhiere con storie inventate.
Lei si affaccia al di sopra del vetro e in punta di piedi cerca di superarlo con tutto il viso, sorride: “Ciao! Cenate fuori?”
Sì, cenano fuori, stanno apparecchiando.
Poche parole. Sorrisi contratti in smorfie sospese… Si sente a disagio.
Il padre della famiglia si china a raccogliere il tubo di gomma con cui annaffia le piante, apre il rubinetto e, mentre su quei volti il sorriso si spalanca in risata, lui, ponendo il pollice sul getto in uscita, prende la mira, spruzzandole acqua addosso.
Non la vogliono lì mentre cenano. Hanno trovato un modo per liberarsene.
I bambini ancora ridono divertiti, lei, sorpresa ed incredula, con l’acqua che le cola dal viso, si ritira umiliata, scende dal muretto, va dalla mamma a raccontarle e mostrarle i vestiti bagnati.
La madre resta china su ciò che sta facendo, lo sguardo non si alza. Cerca di ignorarla mentre la sua voce le risponde che non la vogliono. Deve lasciarli in pace.
L’adulta continua ad osare, ancora è respinta.
Quella bambina e la sua adulta, non accattano elemosine d’affetto e d’attenzione.

La vita va avanti, ed io cammino, percorro l’infinita strada. Quante volte sarò presa di mira da uno spruzzo d’acqua affinché capisca d’essere inopportuna, di dover andare via?

Ho eliminato il suo nome dalla memoria digitale.
Lo so che non basterà. Con impegno mi inseguo per recidere il legame d’un amore, legame all’ombra… Legame di ferita aperta, legame d’adolescenza!
Lui mi cerca come una talpa, scavando cunicoli per non farsi vedere, per formare gallerie attraverso cui vuole che lo raggiunga, ma senza mostrare il lavoro del suo intento. Senza mostrare l’interesse del proprio cuore a sé sconosciuto.
Rovinerebbe l’arguzia del gioco. Guasterebbe il celato labirinto ordito.
Come una sciocca, un’ingenua bimba, cado nella sua tela di ragno, e m’affaccio.
Mi espongo.
Eccomi, sono di nuovo arrampicata sul muretto, col viso oltre l’opaco vetro di separazione, e lui può rassicurarsi del fatto che sono qui: non l’ho dimenticato!
Ed ora che qui sono, esposta, può dirigermi il suo impietoso getto d’acqua gelida in faccia, e ridere, adesso che sa che nel fondo di me lo aspettavo ancora!
Può ridere di quella bimba affettuosa che col suo innocente sorriso è rimasta a chiedere: “Ciao! Che fate? Cenate fuori? Cosa mangiate stasera?”

Ride. Si è preso la sua rivincita.
Ride, dalla sua posizione di adulto.
Ride, dalla sua postazione di talpa.
Ride dalla sua corazza, mentre mi bagna i vestiti che pendono zuppi, inutili.
Io non ho nessuno a difendermi.
Me stessa mi dice che sono stupida, ci sono caduta un’altra volta.
Non ti vogliono. Ancora non l’hai capito? Cerca di dare meno fastidio possibile. Impara a recitare il tuo ruolo e vedrai che quando sarà opportuno verrai chiamata.
Vivrai solo a brevi sprazzi, ma è così che dev’essere.
Sei nata per rimanere a disposizione. Per il resto, puoi anche sparire.

Percorsi antichi, noti.
Così è stato, così si è ripetuto.

Eppure occorre un attimo, è l’istante che trasforma tutto.
Sarà l’ingenuità a vincere. Sarà l’apertura, la voce, il sorriso, il contatto!
Desidero la rivoluzione: per questo son nata!

Ai muri spunteranno orecchie, senza via di scampo!
Questa è la promessa. Il dono che mi lascio…